SECONDO SCHEMA DELLA IV DOM. di pasqua  (Gv 10,11-18)

Il vangelo di questa domenica ci induce a fare una triplice riflessione: sul Pastore buono, bello, grande che è Gesù; sui pastori stabiliti da lui nella sua Chiesa (papa, vescovi, presbiteri, diaconi); sul gregge o pecorelle.

  1. I) Gesù definì se stesso “pastore”: ci volle del coraggio, perché i pastori erano considerati come i pubblicani, ladri e inosservanti delle leggi di Dio; era proibito persino acquistare da essi la lana o il latte o la carne, ed erano privati di alcuni diritti civili, come quello di fare da testimoni nei processi.

Ma fin dalla nascita, Gesù mostrò preferenza per questi uomini emarginati: i pastori furono i primi testimoni della nascita del Salvatore, “nato in mezzo a voi”.

Gesù si autodefinì Pastore per molti motivi: anzitutto perché la figura del pastore che pasce le sue pecore era molto comune in quell’epoca. La pastorizia fu una delle principali attività di tutti i popoli antichi, non solo quello ebraico. 3500 anni a.Cr. i Sumeri, stanziati nell’attuale Iraq, adoravano un dio “Buon Pastore”. I Faraoni egiziani usavano lo scettro, che era una evoluzione del vincastro. Tra gli ebrei, Dio era il pastore del suo popolo, concepito talvolta “fumante contro il gregge” (Salmo 71,1) tal’altra come buono. Nel salmo 23: Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. / Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. / Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino, a motivo del suo nome. /…Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza

Tutti i Patriarchi furono pastori di pecore, capre, buoi. Anche Davide, prima di diventare re, era pastorello.

Il buon pastore era quello che si dedicava alle pecore giorno e notte per condurle in pascoli ubertosi e alle fonti di acqua dissetante, per farle riposare, per proteggerle dagli assalti dei lupi. Il buon pastore le contava ogni giorno, le chiamava per nome.

Fornito solitamente di un bastone e di una fionda – oltre che di una bisaccia – non li usava per colpire le pecore ma i lupi, contro i quali era disposto a combattere e a rimetterci la vita. Gesù offrì spontaneamente la sua vita, per salvarle dalla rovina eterna.

Tutti i pastori prendevano dalle pecore il latte, la carne, la lana; Gesù non pretende null’altro che di essere conosciuto e amato.

Gesù è Buon Pastore:

-perché scese dal cielo per radunare le pecore sparse di Israele (Mt 15,24; 10,6; 9,36), pecore senza pastore (Mt 1,6; 9,36; Mc 6,34).

-perché morì per loro, secondo la profezia di Ez 13,7: “Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge”.

-perché nel giorno del giudizio si circonderà di tutte le pecore e di tutti i capri.

Più che definirsi buono, Gesù si autodefinì bello: ‘o poimèn ‘o kalòs. San Tommaso scrisse che il bello è lo splendore del bene, come il superlativo del bene. Gesù è il Pastore “buonissimo”.

Fin dal III secolo, l’arte lo raffigurò come un bellissimo Efebo con una pecorella sul collo. E’ l’immagine più antica di Gesù. Poi fu raffigurato come Maestro nel secolo dei primi concili ecumenici (IV secolo), come Sovrano al tempo della discesa dei barbari, e come Pantocrator – cioè come dominatore – nell’età bizantina. L’immagine del Buon Pastore, oltre ad essere la più antica, era forse anche la più amata e diffusa, poiché appare  raffigurata nelle catacombe, sui sarcofaghi, sui calici, sulle lampade. San Gregorio Nisseno, alla fine del IV secolo, scrisse che il Buon Pastore porta sulle spalle tutto il gregge: “quell’unica pecorella rappresenta infatti tutta la natura umana che hai preso sulle tue spalle”.

Il Pastore buono e bello,  nella lettera agli Ebrei è detto poimèn mègas (Ebr 13,20), cioè Pastore grande del gregge, più grande di Mosè, di Giona, e di tutti i Patriarchi.

  1. II) Gesù si autodefinì pastore, il Battista lo definì agnello che toglie i peccati del mondo. Anche gli apostoli furono pastori e agnelli, poiché Gesù disse: “Vi mando come pecore in mezzo ai lupi” (Mt 10,16).

San Paolo – nella lettera agli Efesini 4,11 – definì gli apostoli “pastori e maestri (poimènes kai didàskaloi). Nel secolo in cui apparve l’immagine di Gesù Buon Pastore con l’agnello sul collo – cioè nel III secolo – si  sviluppò la liturgia (messa quotidiana, Canone di Ippolito, attuale II Canone) e la teologia, nacquero gli ordini minori, le parrocchie, e di conseguenza acquistarono grande prestigio le figure dei Vescovi e del Parroci, “pastori e maestri”, rimanendo però  Cristo il Pastore supremo (archi-pòimen).

  1. II) Gesù promise ai suoi apostoli di renderli pescatori di uomini, ma alla fine ordinò al suo Vicario in terra: “Pasci le mie pecorelle” (pòimaine tà probatià mou; Gv 21,17).

L’immmgine e la funzione pastorale dei capi della Chiesa è rimasta intatta fino ad oggi, se è vero che i  protestanti chiamano Pastori i loro Vescovi e i loro Parroci, e il Papa Giovanni Paolo II nel 1992 emanò una Esortazione apostolica postsinodale dal titolo “Pastores dabo vobis”, per la formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali. Rifacendosi al profeta Geremia, il Papa auspicò la realizzazione della profezia: “Vi darò pastori secondo il mio cuore” (Ger 3,15).

L’attività del papa, dei vescovi e dei parroci è detta “pastorale”. Il Papa e i Vescovi fanno le visite pastorali e scrivono le lettere pastorali.

I Pastori hanno due compiti: insegnare (con la predicazione, la catechesi, la scuola, i mass media),  e santificare (con la liturgia che è esercizio della funzione sacerdotale di Cristo), curando in modo speciale gli infermi.

Insegnare “tutto ciò che vi ho comandato”, sapendo che Cristo è coi pastori “sino alla fine del mondo”.

Insegnare anzitutto l’imprescindibilità della fede in Cristo per la salvezza. Cristo disse di voler raccogliere prima le pecorelle smarrite d’Israele, ma anche di richiamare alla sua sequela altre pecorelle non appartenenti a quell’ovile, “perché si faccia un solo ovile sotto un solo pastore”, con una sola fede e un solo battesimo.

III) Quali i compiti delle pecorelle?

Fino al Concilio Vaticano II – cioè fino a metà Novecento – “pecorella” era quasi sinonomo di subalterno (Chiesa discente) di fronte ai Maestri (Chiesa docente), come due realtà distinte e separate anche fisicamente: balaustra, pulpito ecc.

L’Esortazione apostolica post-sinodale  Christifideles laici di Giovanni Paolo II (30.XII.1988) parla della Chiesa come mistero, comunione e missione. Pur restando intatto e specifico il sacerdozio ministeriale, nel contesto dell’ecclesiologia di comunione, tutta la Chiesa è popolo sacerdotale, e i cristiani laici sono “a loro modo resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo”, e “per la loro parte compiono nella Chiesa e nel mondo la missione propria di tutto il popolo cristiano”, a partire dalle proprie famiglie. Anche essi sono mandati da Cristo a lavorare nella sua vigna, senza restarsene oziosi. Anche essi sono tralci dell’unica vite, e rami dell’uncio albero che è Cristo.

Pertanto, essere pecorelle non significa essere subalterni, ma membri dell’unica Chiesa, figli nel Figlio, membra dell’unico corpo di Cristo, templi vivi e santi dello Spirito.

La Christifideles laici al n. 20 scrive: “La comunione ecclesiale si configura, più precisamente, come una comunione “organica”, analoga a quella di un corpo vivo e operante: essa, infatti, è caratterizzata dalla compresenza della diversità e della complementarietà delle vocazioni e condizioni di vita, dei ministeri, dei carismi e delle responsabilità”.

E al n. 23, la stessa Costituzione scrive: “La missione salvifica della Chiesa nel mondo è attuata non solo dai ministri in virtù del sacramento dell’Ordine, ma anche da tutti i fedeli laici: questi, infatti, in virtù della loro condizione battesimale e della loro specifica vocazione, nella misura a ciascuno propria, partecipano all’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo. I pastori, pertanto, devono riconoscere e promuovere i ministeri, gli uffici e le funzioni dei fedeli laici”. ”L’esercizio però di questi compiti non fa del fedele un pastore”.

Pertanto le pecorelle, che non sono pecore ma persone umane, devono sentirsi Chiesa, comunità, un cuor solo e un’anima solo. Devono sentirsi uniti ai Pastori, obbedendo ai comandi dati in nome del Pastore supremo, e collaborando come “fideles laici” alla costruzione del regno di Dio.

Nella predicazione primitiva si andò lentamente abbandonando i termini di pastore e di gregge, preferendo quelli di Signore e di Ekklesìa. Paolo parla solo di Eklesìa e mai di gregge;  Giovanni – posteriore – parla solo di gregge e mai di Ekklesìa. In Atti si parla sia di gregge che di Ekklesia.

P. Fiorenzo Mastroianni

 

Richiedi una richiamata

    Il nostro team si metterà in contatto il prima possibile per discutere le tue esigenze.

    Chiamaci oggi

    Siamo qui per tutte le esigenze della tua chiesa!