15 Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16 Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. 17 Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?». 18 Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché mi tentate? 19 Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20 Egli domandò loro: «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». 21 Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Non mancano studiosi che ritengono Gesù un rivoluzionario armato, ingigantendo alcuni spunti che, nei vangeli, danno adito a tale interpretazione. Ad esempio Gesù non vietò mai a Pietro di gettar via la spada, ma gli ingiunse solo di tenerla nel fodero. Altri indizi sono la chiamata a far parte del gruppo apostolico uomini come Simone, soprannominato Zelota (Lc 61,5), cioè nazionalista antiromano, e Giuda, detto Iscariota per adattamento – forse – del latino sicarius (sica era il pugnale) alla lingua ebraica o aramaica. Si tratta di forzature, come sarebbe il dire che Gesù chiamò Matteo perché intendeva fondare una banca, o i pescatori per metter su una pescheria! Semmai, Gesù chiamò queste persone affinché cambiassero i loro progetti di vita, come avvenne con tutti gli apostoli, compreso Paolo. Se è vero che chi si opponeva al regime dei romani cominciava col non pagare le tasse, il vangelo di oggi sembra scritto apposta per dimostrare che Gesù non ostacolò ma accettò la situazione politica esistente in Palestina in quel tempo. Ai farisei e agli erodiani Gesù rispose chiaramente che le tasse andavano pagate. Detto questo, notiamo come Gesù smascherò l’ipocrisia e l’astuzia degli interroganti, alcuni dei quali rappresentavano il popolo ed altri il governo. Il popolo, rappresentato dai farisei, non vuole mai pagare le tasse, e pertanto Gesù–se voleva compiacere il popolo– avrebbe dovuto sollevarlo da tale obbligo. Gli erodiani, come rappresentanti del governo, avrebbero potuto accusare Gesù di atteggiamento antiromano se avesse compiaciuto il popolo. Era una “tentazione”–come la chiamò Gesù–molto ben congegnata, da cui Gesù non doveva uscire vivo! Ma la risposta di Gesù non ha solo un valore contingente, relativo cioè all’obbligo delle tasse, che è oltretutto un valore civile, ma ha un valore molto più ampio, poiché Gesù – con la sua risposta – instaurò una distinzione chiara tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, e invitò non solo gli ebrei ma tutti i cittadini del mondo, a dare a Cesare quello che appartiene a Cesare, e a Dio quello che appartiene a Dio. Nell’impero romano il mondo civile e quello religioso erano combinati insieme, in modo che l’imperatore era anche Sommo Sacerdote, e quasi sempre attribuiva a se stesso il titolo di Dio, con la pretesa di essere adorato e incensato, personalmente o in una sua effigie. Caligola inviò una sua statua a Gerusalemme perché fosse messa nel Tempio ebraico, ma sarebbe scoppiata una guerra se Caligola non fosse stato ucciso in tempo. Le persecuzioni durate circa tre secoli, da Nerone a Diocleziano, furono provocate quasi esclusivamente dal rifiuto dei cristiani di adorare le statue degli dèi e dell’imperatore. Quanto al resto, i cristiani erano irreprensibili, osservanti delle leggi e rispettosi verso le autorità costituite. Nei secoli seguenti la risposta di Gesù ai farisei ed erodiani fu espressa nella teoria delle due spade: quella materiale affidata da Dio al re, quella spirituale affidata al Papa. Ma torniamo al valore universale della risposta di Gesù, che non riguarda solo le tasse e non riguarda solo l’autorità civile, se è vero che Gesù aggiunge: “date a Dio quello che è di Dio”. Nessuno gli aveva chiesto se bisogna dare a Dio quello che è di Dio, ma Gesù ritenne opportuno aggiungerlo. Il dovere di dare a Cesare ciò che è di Cesare si potrebbe persino interpretare e tradurre nei seguenti termini: “voi romani ci avete vinto, quindi governateci e fateci persino schiavi”; ma il dovere di dare a Dio ciò che è di Dio mina questo stesso “diritto” perché Dio vuole che ci consideriamo tutti uguali e tutti fratelli ,uniti nell’amore. Il dovere di dare a Dio ciò che è di Dio abolisce il diritto della forza e instaura la forza del diritto: diritto di essere riconosciuto – ciascuno – come figlio di Dio. Dove regna l’amore non c’è bisogno di spade. Con l’espressione “date a Dio quello che è di Dio”, Gesù concluse quanto andava insegnando e inculcando da alcuni giorni, prima che si avvicinassero a lui i farisei e gli erodiani. Aveva, infatti, appena cacciato dal tempio gli speculatori, gridando: “La mia casa è casa di preghiera”. Dunque, dare a Dio quello che è di Dio significa anzitutto pregarlo e adorarlo. Aveva appena maledetto un albero di fichi senza frutti, volendo significare l’inutilità di uno che non porti frutti di santità da offrire al Creatore. Aveva appena raccontato la parabola dei due figli, uno ossequiente verso la volontà del padre e l’altro no, significando che a Dio Padre spetta l’obbedienza per amore. Infine aveva raccontato la parabola dei contadini che uccisero il figlio del padrone della vigna, nell’illusione di diventarne padroni. Gesù concluse con la profezia: “a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un altro popolo, che ne produca i frutti”. Come a dire: se ora siete sotto il tallone dei romani, domani perderete anche il dominio religioso, perché non date a Dio ciò che gli spetta.
P. Fiorenzo Mastroianni
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Conl’espressione“dateaDioquellocheèdiDio”,Gesùconclusequantoandavainsegnandoeinculcandodaalcunigiorni,primachesiavvicinasseroaluiifariseieglierodiani.Aveva, infatti, appena cacciato dal tempio gli speculatori, gridando: “La mia casa è casadi preghiera”. Dunque, dare a Dio quello che è di Dio significa anzitutto pregarlo e adorarlo.Avevaappenamaledettounalberodifichisenzafrutti,volendosignificarel’inutilitàdiuno che non porti frutti di santità da offrire al Creatore.Avevaappenaraccontatolaparaboladeiduefigli,unoossequienteversolavolontàdelpadre e l’altro no, significando che a Dio Padre spetta l’obbedienza per amore.Infine avevaraccontatolaparaboladeicontadiniche ucciseroilfigliodelpadronedellavigna,nell’illusionedidiventarnepadroni.Gesùconcluseconlaprofezia:“avoisaràtoltoilregno diDioesaràdatoa unaltropopolo,cheneproducai frutti”.Comeadire:seorasietesotto il tallone dei romani, domani perderete anche il dominio religioso, perché non date a Diociò che gli spetta.P. Fiorenzo Mastroianni


